c’è(ra) una storia

Valle Brembana, paesaggio

cortesia di MatthewGhera

Ampi spazi, tanti vaccinati e mascherine ecco il «segreto» dei piccoli centri in Valle Brembana.
Piccoli e brembani. Questo l’identikit dei pochi paesi, esattamente sei, della Bergamasca che in base all’ultimo report di Ats sono a contagi zero.

da l’Eco di Bergamo, 28 gennaio 2022

Immaginiamo di essere spettatori di una vicenda (che può apparire grottesca ma non lo è, come vedremo alla fine) nella quale non possiamo assolutamente intervenire ma che possiamo solamente limitarci a commentare. Due amici appassionati di calcio, da soli su un campetto, per provare qualcosa di nuovo organizzano una sfida a due piuttosto singolare: una gara di calci di rigore da lontano a porta vuota. Le regole sono presto fatte: ogni calcio di rigore deve entrare in porta; ma, dato che non c’è nessuno a fare da portiere, anziché tirare dagli undici metri si allontana la palla fino ai trenta metri e, siccome anche così è troppo facile centrare la porta, invece di un singolo tiro se ne stabiliscono tanti di seguito; supera la sfida chi manda la palla in rete tutte le volte. Così la gara diventa meno banale: perché un tiro troppo debole può spegnersi prima di superare la linea di porta, oppure una folata di vento anomala, una zolla fuori posto, un attimo di distrazione, può produrre un tiro sbilenco che finisce fuori dai pali e dunque rovinare tutto.

Mentre i due amici si divertono, noi, da perfetti estranei, ragioniamo un po’ sul loro nuovo gioco: eventualità di un pareggio a parte (cioè scartando le sfide che si concludono con tutti i tiri di entrambi gli sfidanti a segno oppure con almeno uno sbaglio per parte) chi dei due ha maggiori probabilità di vincere? La domanda può suscitare un po’ di perplessità dato che la risposta appare scontata: se non sappiamo nulla della bravura di ciascuno nel tirare a pallone, è indifferente puntare sull’uno o sull’altro.

Proseguiamo il racconto. Un passante, incuriosito dal gioco dei due amici, suggerisce loro una variante: rimanendo inalterate tutte le regole già dette, uno sfidante deve fare solo dieci tiri, mentre l’altro cento. Proposta che viene accettata, nonostante la sua apparente stravaganza. A questo punto, sforzandoci di rimanere, in tutti i sensi, fuori dal campo, chiediamoci: sulla vittoria di chi conviene scommettere? In assenza, come prima, di altre informazioni sui due sfidanti, diventa naturale rispondere: su quello che deve fare meno tiri, perché ha minori occasioni di sbagliare.

Ma la risposta potrebbe rimanere la stessa anche se ammettessimo che quello dei due che deve fare più tiri è più abile dell’altro. Per esempio, supponiamo di venire a sapere che il primo sbaglia in media una volta su venti, mentre l’altro una volta su dieci: un tasso di errori doppio. Allora, la probabilità di non sbagliare mai è di 0,95100≅0.006=0,6% per il primo e di 0,910≅0,349=34,9% per il secondo. Cioè, senza contare i pareggi, vincerebbe quasi sempre quest’ultimo, per la precisione il 98,3% delle volte: 34,9%:(34,9%+0,6%)≅0.983. Insomma, è sempre la sproporzione del numero dei tiri il fattore più importante a incidere sull’esito della gara, e non la bravura nel gioco.

Di queste nostre considerazioni però i due amici rimangono assolutamente ignari, continuando a giocare per diletto, costantemente vincendo il primo e perdendo il secondo, così come si divertono i sempre più numerosi astanti che, per caso o passaparola, accorrono a vederli in azione. Il gioco finisce col diventare virale in città e se ne organizzano tornei social, dove si sfidano decine di giocatori anziché due singoli; chi scegliendo stabilmente il gruppo dove si tira sempre dieci volte, e chi quello dove si tira cento volte, incuranti di doversi abituare alla sconfitta.

La cosa finisce sui notiziari locali. Qualche giornalista racconta del nuovo gioco che va tanto di moda, si accorge casualmente che vincono quasi sempre i giocatori che fanno meno tiri ma, pure lui completamente all’oscuro delle nostre elucubrazioni, non realizza il nesso tra le due cose e cerca la spiegazione delle vittorie altrove. Fa qualche domanda, cercando dei punti in comune tra i soliti vincitori. In particolare scopre che in tanti frequentano un centro commerciale dove si trova un negozio che tratta articoli sportivi per la casa, e imbastisce un articolo decantando le virtù del tapis roulant, identificato come il mezzo di allenamento in grado di spiegare le sorprendenti vittorie nel nuovo gioco, e altresì intervistando il direttore del centro commerciale cui non pare vero approfittare dell’occasione per prospettare il successo sportivo a chi visita la sua struttura. In effetti il giornalista potrebbe anche avere visto giusto attribuendo al tapis roulant un ruolo importante nella riuscita dei tiri da lontano a porta vuota, ma non indaga oltre come pure potrebbe e dovrebbe fare. Rinuncia per esempio a chiedersi se anche i giocatori dell’altra squadra, quelli costretti a fare più tiri, siano clienti abituali dello stesso centro commerciale, oppure se siano clienti di un altro negozio specializzato in articoli per calciatori, cose che entrambe, seppure in modo diverso, metterebbero in discussione la sua spiegazione. Ha costruito una storia originale, più o meno plausibile, che ha compiaciuto tutti: lui che l’ha scritta, i tanti che l’hanno letta, e chi vi è menzionato. Fine del racconto.

Che non è assurdo, perché l’articolo dell’Eco, come altri che prima di oggi ho commentato una, due volte e fors’anche più perdendo il conto, segue esattamente lo stesso canovaccio.

Si dichiara che i paesi a contagio zero sono piccoli e brembani.

L’identikit è corretto. In sé contiene la spiegazione essenziale dei fatti: i paesi con zero contagi sono quelli piccoli perché in quelli grandi, per il semplicissimo fatto che ci vivono tante più persone, è più facile trovare un positivo, anche se, come abbiamo visto, dovessero avere una minore propensione ai contagi. Che poi siano brembani dipende dall’associazione tra area geografica e dimensione dei centri abitati: tra i 20 comuni della provincia di Bergamo meno popolosi, 16 stanno in Valle Brembana.

Certo questa spiegazione, seppure perfettamente esauriente, risulta banale e dunque poco spendibile in un articolo di giornale. Ecco allora che si preferisce imbastire una narrazione alternativa, più suggestiva e articolata (qualcuno la chiama storytelling), dove diventano altri i fattori (gli ampi spazi, l’alto tasso dei vaccinati e il diffuso uso delle mascherine citati nel titolo dell’articolo), a giustificare i fatti, rinforzando tale versione con le interviste agli amministratori locali che tutti lodano il senso di comunità e il rispetto delle regole dei propri compaesani.

Peccato che tale narrazione non convinca. Vediamo perché, punto per punto.

  • Gli ampi spazi. Dei 20 comuni bergamaschi con la più bassa densità di popolazione, 14 sono ancora in Valle Brembana. Quindi effettivamente le tre caratteristiche (piccoli, montani, estesi), sono fortemente correlate. Tuttavia spazi ampi non corrispondono necessariamente a centri abitati diradati, soprattutto in quei comuni il cui territorio è in larga parte occupato da zone montuose deserte o frequentate dai soli escursionisti. Insomma, l’elemento è plausibile senza essere di per sé determinante, quanto piuttosto associato all’essere piccolo.
  • I tanti vaccinati. Ho compilato, in base ai dati di Regione Lombardia, la graduatoria dei comuni della provincia in ordine decrescente di tasso di vaccinazione (calcolato come complemento a uno della percentuale dei non vaccinati). Dei sei comuni a contagi zero nominati (Blello, Carona, Foppolo, Mezzoldo, Piazzolo e Vedeseta), tre stanno sì nelle prime 15 posizioni, ma altri due stanno tra gli ultimi 10 e uno si trova a circa metà classifica. Quindi è falso che si tratti di una caratteristica comune ai paesi senza contagi.
  • Le mascherine. Può essere che gli abitanti di questi paesi indossino effettivamente le mascherine attenendosi alle norme e alla prudenza. Ma può anche non essere; ed è quantomeno lecito chiedersi quanto sia coerente accostare il rigore nell’uso delle mascherine agli ampi spazi. In ogni caso, la cosa sembra una pura ipotesi giornalistica, senza nessun dato concreto a supporto.

Così come anche le frasi dei sindaci sul senso di responsabilità dei propri compaesani sono generiche e scontate: potrebbero essere pronunciate da qualunque amministratore locale di qualunque altra località.

Riassumendo: c’è una costruzione narrativa che dovrebbe limitarsi alla descrizione e alla testimonianza, invece di ambire a spiegare i dati, spacciando impressioni e speculazioni per argomentazioni. Non siamo al tapis roulant, ma poco ci manca.

Mi viene in mente un altro esperimento mentale, questa volta sì per assurdo: immaginiamo che i paesi a contagi zero siano, anziché quelli più piccoli, i centri urbani più popolosi. Ho scritto per assurdo perché come abbiamo visto la logica dei numeri vuole che l’eccezionalità non stia nei grandi insiemi. Non avremmo forse letto un articolo simile al precedente, a raccontare il segreto dei grandi centri abitati? Con il livello medio di istruzione dei cittadini più alto, le limitate interazioni tra vicini di casa, i controlli più frequenti delle forze dell’ordine, tutti elementi in grado di spiegare minori occasioni di contagio e maggiore scrupolosità nel seguire le norme di comportamento raccomandate?

Una storia per ogni occasione. Ma il perché non è quello giusto.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.