ricerca e trova: ma davvero?

tazza di caffè fumante

cortesia di Nathan Dumlao

Bere caffè abbassa la pressione: ecco la sorprendente ricerca dell’Unibo

“I risultati che abbiamo ottenuto mostrano che chi beve regolarmente caffè ha una pressione sanguigna significativamente più bassa, sia a livello periferico che a livello centrale, rispetto a chi non ne beve”, spiega [il] primo autore dello studio.

“Si tratta del primo studio ad osservare questa associazione sulla popolazione italiana, e i dati confermano l’effetto positivo del consumo di caffè rispetto al rischio cardiovascolare”, aggiunge […].

da BolognaToday del 30 gennaio 2023

Il titolo dell’articolo descrive ahimé alla perfezione il risultato del subdolo slittamento dal primo passo citato al secondo. Perché alto e basso è antitesi differente da alzare e abbassare.

Proviamo a rincarare la dose, anzi, ad addolcirla. Immaginiamo di dividere l’insieme dei bevitori di caffè in due gruppi, chi lo beve con lo zucchero e chi lo beve senza. Se nel primo gruppo il livello di glicemia fosse mediamente più basso che nel secondo, saremmo forse autorizzati a concludere che lo zucchero abbassa la glicemia? Beh, spero che la risposta sia: no! Perché esiste almeno una spiegazione alternativa plausibile: che chi soffre già di glicemia alta evita di bere il caffè con lo zucchero; in altre parole, c’è una condizione preesistente che rende differenti i due gruppi rispetto ai valori medi della glicemia, a prescindere da come si beve il caffè.

Spiegazione analoga vale per il solo caffè: lo beve chi non ha problemi, si astiene chi teme per la sua pressione più alta della norma; e così in partenza i due gruppi risultano diversi per il livello medio di pressione sanguigna. Un altro caso insomma di distorsione da selezione.

In particolare lo studio dell’articolo è un cosiddetto cosiddetto osservazionale: si confrontano i valori medi di una certa variabile (pressione) in due o più gruppi di persone, suddivise rispetto a una loro caratteristica o abitudine individuale (il caffè). L’eventuale differenza osservata indica la presenza di una relazione tra la variabile (pressione) e l’abitudine (il caffè). Dato però che i gruppi possono risultare differenti anche per via di altre caratteristiche o abitudini personali (l’attenzione a non peggiorare la propria pressione alta) che pure sono in grado di influire almeno potenzialmente sulla proprietà oggetto di studio, non si può attribuire alla precedente relazione un nesso di causalità. E’ vero che esistono tecniche particolari per correggere le distorsioni generate dalla differente composizione dei gruppi; ma non offrono garanzie risolutive, tanto è vero che è frequentissimo trovare studi osservazionali che si smentiscono a vicenda, arrivando a conclusioni opposte.

Per supportare la conclusione che una caratteristica o abitudine determina i valori di una variabile (in questo caso: il caffè ha effetti benefici sulla pressione) occorrerebbe, come ho scritto nel mio ultimo articolo, uno studio randomizzato: cioè uno studio dove si sorteggia chi deve bere o non bere caffè (escludendo ovviamente chi non è disponibile a sottostare a questa scelta); oppure, più semplicemente, uno studio dove ogni partecipante alterna settimane in cui beve caffè ad altre in cui non lo beve.

Gli studi non randomizzati vanno presi con le pinze. C’è un simpatico fumetto della serie Dilbert che riassume le ambiguità nelle conclusioni di questo genere di ricerche. Ne riporto solo le battute principali, ma chi vuole può leggere direttamente l’originale: “Studi dimostrano che chi fa attività fisica sta meglio degli altri”. “Sì, ma solo perché chi è in cattiva salute non può fare attività fisica”.

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