i vaccini in prospettiva

Ho letto su twitter una brillante analisi di Christina Pagel che esamina l’impatto della pandemia sulle differenti fasce d’età della popolazione per fornire qualche previsione sugli effetti a breve termine dalla politica di vaccinazione.

La ripropongo qui, senza alcuna ambizione di originalità, ma solo adattandola ai dati italiani che sono riuscito a raccogliere.

Procediamo per passi.

Primo passo: mettiamo a confronto la distribuzione per età della popolazione con quella dei casi confermati.

Se risultassero sensibilmente differenti, si identificherebbero quelle fasce di età che più delle altre sono colpite dal covid e, di conseguenza, contribuiscono anche alla diffusione della malattia. Un’informazione utile, almeno potenzialmente, per decidere la priorità nelle vaccinazioni.
Ma la composizione delle due barre si somiglia molto, a indicare che il covid colpisce all’incirca nella stessa misura tutte le fasce di età, con l’eccezione dei più giovani. E, del resto, occorre essere prudenti nel trarre conclusioni da questo confronto, perché il numero dei casi accertati sottostima fortemente il numero dei casi effettivi, e non è detto che la distribuzione per età di questi ultimi corrisponda a quella dei primi, che dipende anche dalla politica con cui si eseguono i test. Diventa più facile, infatti, trovare casi positivi tra i giovani, gli adulti o gli anziani semplicemente facendo più test in quegli stessi gruppi.

Secondo passo: esaminiamo anche la distribuzione per età dei malati che sono stati ricoverati in ospedale.

Mentre il peso dei più giovani diventa trascurabile, 3 casi su 10 riguardano gli ultraottantenni, ma più di 4 su 10 la fascia di età precedente, a partire dai sessant’anni. L’indicazione che si può trarre a proposito delle vaccinazioni è chiara: se si vuole abbattere il numero delle ospedalizzazioni, è necessario proteggere non solo gli ultraottantenni, ma anche gli ultrasessantenni.

Terzo passo: aggiungiamo la distribuzione per età dei pazienti per i quali si è reso necessario il trasferimento in terapia intensiva.

Gli ultraottantenni rappresentano meno del 15%. Il peso della fascia di età dei sessantenni e settantenni cresce ancora, e di parecchio, rispetto al punto precedente, arrivando a comprendere più di 6 casi su 10. Ciò rafforza l’ultima osservazione fatta: non sono gli ultraottantenni a mettere in crisi le strutture ospedaliere, e in particolare delle terapie intensive. Per alleggerire il peso di queste ultime, occorre prevedere di vaccinare anche sessantenni e settantenni.

Quarto e ultimo passo: consideriamo infine la distribuzione per età dei decessi.

Le cose cambiano piuttosto radicalmente. In più di 6 casi su 10 a morire sono gli ultraottantenni. Quindi proteggere loro significa ridurre drasticamente il numero delle vittime. Vaccinando dunque per primi gli ultraottantenni si arriverà a salvare il maggior numero di vite, pur senza risolvere del tutto il problema della pressione prodotta dall’epidemia sul sistema sanitario.

Ho concluso. Si tratta di una analisi di massima, non certo esaustiva, ma che ha il pregio di mostrare come i più elementari dati demografici possono fornire indicazioni diverse, a seconda del punto di vista considerato, ma nel complesso utili a inquadrare il senso di alcune scelte ed anticiparne i possibili effetti.

Poi ovviamente per decidere le priorità di una campagna vaccinale possono essere tenuti in conto altri fattori, come per esempio il profilo professionale: chi lavora a contatto con il pubblico corre più rischi di venire contagiato ma anche di contagiare gli altri, mentre chi deve curare gli infetti è in una posizione particolarmente delicata.
Dunque la campagna vaccinale in atto, dando la precedenza a medici e operatori sanitari e poi ultraottantennni, si basa su un doppio criterio di scelta, quello demografico e quello professionale.

P.S.: la suddivisione in classi di età ventennali, che differisce da quella dell’analisi originale, è una scelta mia, dettata in parte dai limiti dei dati disponibili e dall’altra dalla necessità di semplificare il discorso limitandosi a un numero ristretto di classi. Nel testo uso il termine ultraottantenni per indicare gli anziani di ottant’anni o più.
Ho ricavato la distribuzione per età della popolazione dai dati istat al 1 gennaio 2020, e tutte le altre dal bollettino dell’Istituto Superiore si Sanità aggiornato al 14 febbraio. Tale documento non riporta esplicitamente la distribuzione per età dei malati presenti nelle strutture ospedaliere. L’ho desunta io in base alla classificazione dello stato clinico dei malati, assumendo che a tutti i casi dichiarati come severi corrisponda un ricovero in ospedale, e a tutti quelli critici uno in terapia intensiva. Può darsi che questa mia operazione non concordi esattamente i numeri reali, ma pure non dovrebbe stravolgere il senso delle argomentazioni che ho presentato.

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