due positivi due misure

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Nessun test diagnostico è infallibile. E’ così anche per i test effettuati per rilevare l’infezione da coronavirus: c’è sempre la possibilità di ottenere un falso positivo, ovvero di sbagliare dichiarando che il virus è presente quando in realtà non c’è, o un falso negativo, ovvero di sbagliare concludendo che il virus è assente quando in realtà c’è.

Il cosiddetto tampone molecolare ha una probabilità estremamente piccola di generare un falso positivo, inferiore all’1%, ma la frequenza dei falsi negativi è nell’ordine del 20%-30% può arrivare, ma solo nelle primissime fasi dell’infezione, al 20%-30%, ché il test molecolare è in assoluto il più affidabile. Con il test sierologico falsi positivi e falsi negativi hanno una frequenza di qualche punto percentuale.

Anche se non si può mai escludere la possibilità di un falso positivo, la plausibilità di un simile caso va valutata tenendo conto di tutte le altre informazioni note. Per esempio, è ragionevole ritenere, in base ai dati appena riportati, che abbia un valore più probante la positività di un tampone molecolare che quella di un test sierologico; ma anche che l’esito positivo di un test effettuato su una persona scelta a caso risulti meno convincente di quello su un contatto stretto di un contagiato già accertato.

Eppure, la cronaca recente ci ha presentato due episodi di positività nei quali i giornalisti, invece di valutare con attenzione tutte le informazioni disponibili, hanno sposato acriticamente la versione più immediatamente spendibile, rinunciando a indagare la sua attendibilità. Di più, paradossalmente, nei due casi la stampa ha sostenuto posizioni opposte, una volta accreditando la versione di un falso positivo, nell’altro trascurandola.

Il primo. Qualche settimana fa il calciatore El Sharawi, convocato per una partita della nazionale italiana, è risultato positivo a un tampone molecolare. Eppure subito il medico della nazionale ha prospettato l’ipotesi di un falso positivo, e i giornalisti l’hanno presa quasi come certa. Trovo curiosa questa asimmetria di valutazione: non ho mai sentito il medico pronunciarsi sulla possibilità che un qualunque test negativo nascondesse un giocatore contagiato.

Spero di essermi spiegato: se le previsioni del tempo indicano che domani pioverà, un meteorologo, pur sapendo che non sono perfette, prepara l’ombrello, non pensa che potrebbe lasciarlo dov’è; altrimenti, ogni volta che le stesse previsioni danno per il giorno seguente il sole, dovrebbe mettere le mani avanti preparandosi alla pioggia.

Poi è successo che lo stesso giocatore abbia fatto un tampone di controllo, e che questo sia risultato negativo. I giornali hanno all’unanimità titolato che era la prova del falso positivo. Non è così. Due tamponi discordanti rendono un caso dubbio, ambiguo, non fanno propendere in misura determinante verso una o l’altra ipotesi, come chiunque abbia familiarità col teorema di Bayes può confermare.

Per inciso, il risultato del secondo tampone è arrivato in ritardo, e anche questo è un elemento che dovrebbe far sorgere qualche perplessità; a meno che i ritardi nella consegna degli esiti dei tamponi siano frequenti, ma allora non dovrebbero nemmeno fare notizia…

Secondo. Uno studio del’Istituto Tumori di Milano ha rilevato, in base a un esame sierologico sul sangue prelevato più di un anno fa a circa mille pazienti, sei casi positivi (anche se i numeri variano a seconda della testata giornalistica). La stampa ne ha dato notizia avallando la conclusione dei ricercatori che il coronavirus circolasse già nel nostro paese a settembre dello scorso anno.

La possibilità che i casi positivi fossero in realtà dei falsi positivi è stata totalmente ignorata il primo giorno e poi solo timidamente avanzata nei giorni seguenti, nonostante tale possibilità fosse molto più plausibile della eclatante congettura sulla presenza del virus mesi prima dell’esplosione dell’epidemia lo scorso inverno.

In primo luogo, perché anche se gli autori della ricerca sostengono che il loro test abbia una probabilità molto piccola di generare dei falsi positivi, basterebbe che tale possibilità sia pari a un valore modesto come il 6 per mille per essere perfettamente in linea con i risultati osservati e quindi in grado di spiegarli senza alcuna ipotesi supplementare. In secondo luogo perché il fatto che si tratti di veri positivi avrebbe delle conseguenze incredibili. Anche se l’insieme delle persone sottoposte al test non può dirsi un campione rappresentativo della popolazione italiana, è ingenuo pensare che solo tra di loro si fossero sviluppati dei contagi. Faccio un calcolo molto spannometrico, limitandomi all’area metropolitana di Milano dove i ricercatori ritengono fossero concentrati i casi positivi. 6 infetti su mille equivalgono a 9mila infetti su un milione e mezzo di abitanti. Ma senza misure di contenimento, liberi di circolare, il loro numero sarebbe cresciuto esponenzialmente, raddoppiando ogni 3/4 giorni come succedeva durante la prima ondata dell’epidemia, arrivando a milluplicarsi in poco più di un mese, cioè a produrre 9 milioni di contagiati e, considerando un tasso di ospedalizzazione del 5%, 450mila ricoveri. Una plateale assurdità.

Insomma, non è la prima che lo scrivo, ma un po’ di sana perplessità di fronte a notizie che suonano troppo comode o troppo nette anche in casi dove l’incertezza è padrona non fa male.

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