e-nucleare disinformazione

Janette Sherman e Joseph Mangano sulla testata CounterPunch (traduzione di ComeDonChisciotte):

I bambini negli Stati Uniti stanno morendo a un ritmo sempre maggiore. […]
Ultimamente il Morbidity and Mortality Weekly Report del CDC [Rapporto settimanale sull’infettività e mortalità, ndt] ha segnalato che otto città del nord-ovest degli Stati Uniti (Boise in Idaho, Seattle nello stato di Washington, Portland in Oregon, oltre alle città nel nord della California, Santa Cruz, Sacramento, San Francisco, San Jose e Berkeley) hanno registrato i seguenti tassi di mortalità fra i minori di un anno d’età:

  • 4 settimane prima del 19 Marzo 2011: 37 morti (con una media 9,25 alla settimana);
  • 10 settimane prima del 28 Maggio 2011: 125 morti (con una media di 12,50 alla settimana).

Ciò equivale ad un aumento del 35% (il totale per tutti gli Stati Uniti sfiora il 2,3%) ed è statisticamente rilevante. Di ulteriore rilevanza è il fatto che tali date comprendono le quattro settimane precedenti e le dieci successive al disastro dell’impianto di Fukushima. Nel 2001 la mortalità infantile era di 6,834 per 1000 nati vivi, aumentata fino a 6,845 nel 2007. Tutti gli anni dal 2001 al 2007 hanno registrato dei tassi più alti rispetto al 2001.

L’articolo Picco del 35% di mortalità infantile dopo l’incidente di Fukushima nelle città del nord-ovest degli Usa. Il drammatico aumento dei decessi infantili negli Stati Uniti è il risultato della ricaduta radioattiva di Fukushima? da cui ho tratto il passo citato è un tale cumulo di sciocchezze che può ben rappresentare un ottimo esempio di come non usare le statistiche per discutere una tesi. Forse i suoi autori ritengono che l’incidente alla centrale nucleare giapponese sia un disastro di proporzioni talmente apocalittiche che abbia avuto conseguenze tragiche, dirette e immediate anche a migliaia di chilometri di distanza.

Ma vediamo in dettaglio i punti discutibili:

  1. Il titolo “Picco del 35% di mortalità infantile” è quanto mai equivoco, perché da l’idea che il 35% dei bambini nati, una cifra spropositata, siano morti, mentre si tratta di un (presunto) picco del 35% di aumento nel numero di morti in età infantile, sempre plateale in termini relativi ma estremamente contenuto in termini assoluti.
  2. E’ possibile confrontare due diversi valori del numero di morti solo se questi si riferiscono alla stessa popolazione o a popolazioni di dimensioni uguali (altrimenti dovrebbero essere trasformati in tassi, cioè in numero di morti per mille abitanti). Inoltre è possibile attribuire a un fattore esterno la differenza tra due valori relativi a periodi diversi solo se il fenomeno sottostante, cioè la mortalità, è costante nel tempo. Si tratta di due assunzioni importanti che avrebbero meritato di essere esplicitate, anche se è ragionevole assumere che nell’arco delle 14 settimane considerate la popolazione delle città citate non sia cambiata in maniera sensibile ed è plausibile, ma non certo indiscutibile, che la mortalità infantile non abbia forti variazioni stagionali.
  3. Pur ammettendo un andamento costante nel tempo, è tuttavia naturale osservare oscillazioni nei valori di mortalità di periodi successivi, che sono l’effetto della normale variabilità presente in tutti i fenomeni statistici. In altre parole, può essere che la differenza tra i due valori di 9,25 e 12,50 morti alla settimana sia da considerarsi il risultato della fluttuazione di un fenomeno la cui intensità rimane costante nel tempo. Per fare un primo, valoce controllo, che non richiede altri dati se non quelli appena citati, si può usare una semplice regola empirica nota in statistica (molto “alla buona”) secondo la quale nelle operazioni di conteggio uno scarto di due volte la radice quadrata del valor medio va vista come semplice oscillazione casuale. Secondo i dati citati, nelle 14 settimane considerate la media del numero di morti è di circa 11,5, il che equivale a 46 morti in 4 settimane e 115 morti in 10 settimane. Ma lo scarto tra 37 e 46 è più piccolo di 13,5, cioè il doppio della radice quadrata di 46, e così lo scarto tra 115 e 125 è più piccolo di 21,5, cioè il doppio della radice quadrata di 115. Perciò non è assolutamente accettabile sostenere che l’aumento sia statisticamente rilevante.
  4. Non viene spiegato, e non si capisce, perché limitare il periodo di tempo esaminato antecedente all’incidente a sole 4 settimane. Se lo si estende a 10 settimane, la stessa lunghezza del periodo considerato successivo all’ìncidente, e si calcola la media del numero di morti per settimana (i dati possono essere recuperati sul sito http://www.cdc.gov), si ottiene un valore di 12,9 morti alla settimana. La situazione si è completamente rovesciata: il numero dei morti è diminuito, non aumentato. Viene il dubbio che… Come si dice, a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. Le stesse obiezioni dei miei ultimi due punti sono ben sviluppate per via grafica e quindi in maniera più intuitiva nell’intervento, dal titolo certamente poco benevolo verso gli autori dell’articolo sotto esame, Shame on you Janette Sherman and Joseph Mangano.
  5. L’elenco delle città citate mi ha incuriosito. Il sito che pubblica i dati le inserisce, tutte meno una, nel gruppo della costa pacifica, e quindi m’è venuto spontaneo considerare il numero dei morti di tutte le città inserite in questo gruppo. Allego il prospetto dei miei calcoli. Anche senza correggere la discutibilissima scelta di confrontare un periodo di 4 settimane con uno di 10, ho verificato che la media del numero di morti è più bassa nel secondo periodo che nel primo. Di nuovo: a pensar male… Del resto il titolo dell’articolo cita il nord-ovest degli Stati Uniti, pur senza fornire una spiegazione convincente del perché quella dovrebbe essere la zona più colpita dalle radiazioni provenienti da Fukushima. Non sono un meteorologo ne un climatologo, ma la mappa pubblicata su ComeDonChisciotte non supporta granché una tale convinzione. Comunque sia, anche ammettendo che le città nel sud della California vadano escluse dall’analisi, l’elenco citato nell’articolo non considera due città dello stato settentrionale di Washington. Insomma: le città prese in considerazione non sono tutte quelle della costa orientale, come suggerirebbe la classificazione geografica della fonte dei dati; non sono nemmeno tutte quelle del nord-ovest degli Stati Uniti, come sembrano dichiarare gli autori. Diventa forte il sospetto che la scelta delle città sia stata un po’ manovrata, anche pure inconsapevolmente…
  6. L’osservazione sull’aumento del tasso di mortalità negli anni dal 2001 al 2007 è banale e non pertinente. La differenza tra il valore più alto e quello più basso è dello 0,011 per mille, che senza una misura della variabilità del fenomeno non dice assolutamente nulla. Altrettanto insignificante è la constatazione che “Tutti gli anni dal 2001 al 2007 hanno registrato dei tassi più alti rispetto al 2001”, come a voler sottintendere un trend crescente. Anche nella sequenza 1,7,6,5,4,3,2 il primo valore è il più piccolo, ma i numeri non hanno certo un andamento crescente.

Post Scriptum. Gli “svarioni” dell’articolo non sono passati inosservati, tanto che l’editorialista della testata CounterPunch ha deciso di far intervenire un esperto di statistica per verificare i calcoli degli autori. Pur prendendo atto, con molta indulgenza, della debolezza dei ragionamenti fatti, nell’ostinato tentativo di salvarne le conclusioni (o le premesse – o pregiudizi – sottintese) mi pare che l’esperto sia incorso un altro scivolone. Cercando di stabilire un criterio in base al quale definire le città da includere nell’analisi, è arrivato a considerare le quattro città più settentrionali, al cui gruppo sarebbe associato un aumento di addirittura il 42% della mortalità infantile dopo l’incidente di Fukushima! I miei calcoli, come si può agevolmente verificare nel documento allegato, contraddicono i suoi risultati; evidentemente uno di noi ha fatto qualche errore. Ma soprattutto contesto questo modo di procedere. A cose fatte, l’editoriale sostiene che un tale risultato sia molto significativo e supporta pienamente e prevedibilmente la tesi di una relazione con le radiazioni sprigionatesi dalla centrale. Io invece sono convinto, in mancanza di una precisa spiegazione iniziale del perché una certa zona dovrebbe essere più colpita di un’altra, che l’ultimo gruppo di città sia stato identificato a forza di tentativi successivi, il che invalida qualunque conclusione sui risultati ottenuti. A forza di cercare, qualcosa si trova sempre. A nord o a sud, oppure al centro, o solo nelle città grandi o in quelle piccole, o in quelle lungo la costa, o in quelle che chissà quale caratteristica hanno in comune. In altre parole, considerando un insieme abbastanza grande entro cui cercare, è del tutto normale trovare qualche sottogruppo che si distingue dagli altri in maniera tanto più forte quanto più è piccolo il sottogruppo isolato. Giustificare a posteriori questo fatto e attribuirgli un significato particolare è un errore che può portare ad appoggiare le tesi più insensate.

9 pensieri su “e-nucleare disinformazione

  1. Mattias, I’m glad to read your comment. It seems that we have indipentently found a serious error (both arithmetical and logical) in the CounterPunch reply. Isn’t it?

  2. Yes Antonio, something is really weird with the re-analysis done by Pierre Sprey. I am also happy to see that you come to the same conclusion independently.

    The main challenge will be to convince every one who will only remember “there were small children dying in the US due to Fukushima”. The damage is already done, these charlatans can say anything and they will be believed. But we can at least try to spread the word that they are lying and are not to be trusted.

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