due su tre non per sfortuna ma per forzatura


Da La Repubblica del 2 gennaio 2015:

cortesia di crafty_dame

In molti casi ammalarsi di cancro è solo un fatto di sfortuna e non di stile di vita. […]
Due terzi dei tumori sarebbero infatti dovuti a mutazioni legate al puro caso […], piuttosto che a stili di vita sbagliati come il fumo. Solo un terzo sarebbe invece legato a fattori ambientali o predisposizioni ereditarie. In sintesi, il 66% dei tumori è pura sfortuna, ossia sembrano apparentemente incomprensibili perché si verificano in assenza di comportamenti a rischio.

Così vengono riassunti i risultati della ricerca condotta alla Johns Hopkins School of Medicine del Maryland cui negli ultimi giorni la stampa ha dato tanta eco. Tutti i siti informativi si esprimono in modo praticamente identico, riportando che due tumori su tre sarebbero da attribuire alla sfortuna. E la cosa, almeno fuori dall’Italia, ha generato non poche discussioni.

Per esempio un articolo del Guardian ha tuonato, con toni particolarmente accesi, contro la cattiva stampa incapace di citare fedelmente il ruolo della cattiva sorte descritto dagli autori della ricerca. La ragione del contendere sta essenzialmente in questo grafico della loro pubblicazione, che mostra come quegli organi le cui cellule staminali si riproducono di più sono anche quelli per i quali si registra una maggiore incidenza di casi di cancro.

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Il diagramma mette in evidenza come all’aumentare del numero di divisioni cellulare, cresca anche la probabilità di avere una mutazione che da luogo al cancro, suggerendo il ruolo decisivo che avrebbero le mutazioni cellulari nell’insorgenza della malattia. L’articolista del Guardian sottolinea che il tanto ampiamente sbandierato livello del 65%, convertito a parole nei famosi due casi su tre, è semplicemente il valore di un indice statistico (noto come r2) che misura la precisione della relazione tra le due variabili rappresentate nel grafico ma non deve essere inteso come la frequenza dei casi di cancro dovuto alle mutazioni.

Ha ragione solo in parte. Gli autori della ricerca scrivono infatti nella loro pubblicazione, commentando l’anzidetto dato numerico, che gli effetti casuali della replicazione del DNA rappresentano la causa principale di cancro negli uomini, avallando di fatto il passaggio dalla prima interpretazione alla seconda. Non si tratta dunque, almeno per una volta, di cattivo giornalismo ma di cattiva, o perlomeno ambigua, presentazione dei risultati di uno studio.

Studio che, in termini qualitativi, non dice nulla di sconvolgente. Le ipotesi sull’origine del cancro per effetto di mutazioni casuali nella replicazione del DNA sono note e supportate già da tempo. E’ il dato quantitativo che appare a prima vista un po’ sconcertante. Tanto che tutti gli articoli apparsi negli ultimi giorni hanno un tono un po’ ambivalente, perché riportano il risultato numerico accompagnandolo però con pareri di altri esperti che ricordano quanto sia importante seguire uno stile di vita salutare. Della serie, un colpo al cerchio, uno alla botte. E del resto non si può dimenticare che tanti studi precedenti hanno rilevato per diversi tipi di cancro frequenze differenti in gruppi etnici differenti, evidenziando il ruolo della componente ereditaria, e tra paesi sviluppati e non sviluppati, evidenziando il ruolo delle componenti ambientali e di quelle riconducibili ad abitudini e comportamenti di vita.

Il punto è che non solo è fallace l’interpretazione che attribuisce alla casualità il 65% dei casi di cancro, ma anche quella che, più genericamente, le assegna un ruolo di primaria importanza.

Ben tre articoli, con argomentazioni solo in parte sovrapposte, lo spiegano in maniera molto competente e convincente, sebbene la loro lettura richieda qualche conoscenza di statistica.

Tanto per limitarsi a una osservazione che è alla portata di tutti, basta osservare che nel grafico precedente il cancro al polmone è riportato due volte, una per i fumatori e una per i non fumatori, e nel primo gruppo la probabilità di ammalarsi è di 18 volte più alta che nel secondo. D’accordo, gli autori della ricerca dicono che la loro conclusione non vale per tutti i tipi di cancro ma solo per alcuni, eppure già da solo questo fatto lascia un po’ perplessi.

Io vorrei proporre un nuovo argomento, complementare a quelli discussi negli articoli che ho citato, per valutare da un diverso punto di vista le conclusioni dello studio sul ruolo della sfortuna, ovvero delle mutazioni casuali insite nei processi di riproduzione cellulare, come causa prevalente dei tumori.

Vediamo in sintesi le premesse di questo lavoro di analisi. I dati del grafico sono il risultato, il prodotto osservabile, di un modello esplicativo, cioè di un meccanismo secondo il quale il numero di riproduzioni cellulari determina la frequenza dei casi di cancro per effetto delle mutazioni.

L’articolo pubblicato, come tutti gli studi scientifici di questo tipo, si muove in senso induttivo: cerca cioè di risalire dai dati osservati al meccanismo, supposto noto nel funzionamento ma non nei suoi parametri numerici, per stimare il peso delle diverse componenti cui attribuire la causa del cancro.

Io invece procedo nella direzione opposta: immagino un meccanismo perfettamente noto, definendolo in tutte le sue componenti numeriche, e in base ad esso simulo dei dati osservati, per valutare come e in che misura il grafico dei dati simulati offra informazioni sul modello che li ha generati.

Il modello che ho elaborato descrive un meccanismo ideale e semplificato che agisce secondo le seguenti quattro ipotesi, dove ho specificato i valori numerici in modo da ottenere dei dati il più possibile simili a quelli presentati nella ricerca pubblicata:

  • si considerano 31 organi del corpo umano a ciascuno dei quali viene associato un numero di divisioni cellulari generato casualmente tra 107 e quasi 1012;
  • la probabilità di produrre una mutazione che origina il cancro è costante e pari a una su 1012, cioè una su 1000 miliardi, per tutti gli organi; così, per esempio, a un numero di divisioni di 109, 1010 e 1011 nel corso della vita corrisponde una probabilità di ammalarsi di cancro di circa 1 su 1000, 1 su 100 e 1 su 10;
  • per ciascun organo del corpo umano e quindi tipo di cancro c’è una percentuale variabile di popolazione, compreso tra 0% e un valore da scegliere tra 5%, 10%, 15%, 20% e 25%, soggetta a uno o più fattori di rischio, siano essi ereditari, ambientali o comportamentali, che congiuntamente aumentano la probabilità di avere una mutazione cancerogena di 5, 10, 20, 50 o 100 volte;
  • sia il numero di divisioni cellulare che la probabilità di ammalarsi vengono stimate con un errore di misurazione di entità ragionevole;

Sotto queste ipotesi è possibile simulare una nuvola di punti analoga a quella riportata nel grafico descritto prima scegliendo di volta in volta un valore diverso per la quota massima di popolazione soggetta ai fattori di rischio e per il numero di volte che questi fattori di rischio aumentano la probabilità di una mutazione cancerogena. Per ogni simulazione viene calcolato l’indice r2 e la percentuale f dei casi di cancro riconducibili alle sole mutazioni.

incidenza % massima dei fattori di rischio:che aumentano la probabilità dei tumori di:volte    

Scegliendo diversi valori per i due parametri che ho lasciato variabili, e ripetendo la simulazione, ci si rende conto che il peso della sola componente casuale, misurato da f, oscilla molto più vistosamente dell’indice r2 che misura la dispersione dei punti. In particolare aumentando l’incidenza percentuale dei fattori di rischio e il loro effetto sulle probabilità di mutazione, la nuvola di punti tende a somigliare a quella presentata nell’articolo, mentre la percentuale dei casi di cancro riconducibile al solo effetto del caso diminuisce in misura rilevante. E ciò a riprova del fatto che il valore di r2, anche quando molto alto, non implica necessariamente una quota maggioritaria di casi di cancro dovuti alle mutazioni e non ai fattori di rischio, anzi, non influisce granché su tale percentuale.

Personalmente, questo esercizio di simulazione mi è tornato molto utile anche per comprendere che l’attribuire, con i soli dati presentati nella ricerca, un peso percentuale alla componente del caso, cioè quella relativa alle mutazioni, per l’insorgenza del cancro è compito abbastanza azzardato. Il mio è un modello semplificato dove i fattori di rischio incrementano tutti la probabilità di una mutazione nella stessa misura per ciascun tipo di cancro, mentre invece nella realtà fattori di rischio diversi hanno effetti quantitativi diversi. Che dipendono anche dalle probabilità di partenza. E’ evidente infatti che se la probabilità di ammalarsi di un certo tipo di cancro nel corso della vita per effetto delle sole mutazioni casuali è dell’80%, allora eredità genetica, ambiente e stili di vita contano poco; se invece la probabilità di ammalarsi di un altro tipo di cancro è inferiore, mettiamo, allo 0,1%, allora c’è la possibilità, almeno teorica, che i fattori di rischio la possano aumentare in misura enorme. Senza informazioni sull’effetto dei fattori di rischio perlomeno per quei tumori associati ai numeri di divisioni cellulari più grandi e quindi alle probabilità di ammalarsi più alte è davvero arduo stimare il loro contributo e, di complemento, quello del caso. Inoltre, anche per questi tipi di cancro contano i tempi dell’insorgenza della malattia: i fattori di rischio possono provocarla con anni o decenni di anticipo sul suo sviluppo per effetto del solo caso, e non è ragionevole non tenerne conto.

In definitiva, lo studio della Hopkins School conferma con i suoi dati la relazione tra mutazioni casuali e insorgenza del cancro; ma anch’io come altri sono convinto che non possa stimare in maniera attendibile quale percentuale dei casi di cancro sia riconducibile alla sola componente casuale dovuta alle mutazioni da replicazione cellulare.

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